di Matteo Ruini

 

Alcuni anni fa venne dato alle stampe un importantissimo testo dove si ricostruiva la storia della prima azienda ceramica di Sassuolo. Già nel titolo si celebravano i duecentocinquant’anni d’attività ricordando come la storia ceramica sassolese avesse un passato vecchio di alcuni secoli. Uno dei problemi che mi sono trovato ad affrontare durante il mio lavoro è stata proprio la generale mancanza di conoscenza di questo patrimonio storico. Molti credono che l’attività ceramica sassolese sia una casualità dettata da diversi fattori venutosi a coagulare a partire dagli anni ’50 del novecento con il boom economico, ma non è così e con questo testo spero di poter far maggiore luce al riguardo.

Storicamente non mancano fin dalle epoche più antiche tracce e notizie della presenza di attività ceramica sul territorio sassolese, in epoca romana Plinio il Vecchio ricordava che la zona di Modena era importante e famosa per la produzione ceramica, la diffusa presenza d’argilla nelle colline aveva facilitato questa attività. In epoca più recente un documento notarile del 1279 ricordava la presenza di una fornace nel territorio di Sassuolo gestita da un consorzio di comuni: Sassuolo, Fiorano, Camiazzo, Santo Stefano, Fogliano, San Venanzio, Maranello e Rocca Santa Maria. Venendo avanti nel tempo nel 1435 esisteva nel borgo una fornace in un’area attraversata dal canale di Modena. Infine nel 1712 era attiva la fornace Vandelli, il conduttore Marco Vandelli in quell’anno trasferiva il macinello del piombo in un edificio posto lungo il canale di Modena.

Ma veniamo al 1741, anno in cui Gio. Maria Ferrari con altri otto decidevano di formare a Sassuolo una società per la produzione di maiolica. Indirizzavano una supplica al duca Francesco III spiegando che avrebbero iniziato a produrre maiolica ordinaria usando una fornace preesistente dotata di macinello, la Vandelli già citata, poi avrebbero fatto venire esperti ceramisti dalla Romagna. Chiedevano il monopolio produttivo per gli stati estensi, il divieto d’importazione di prodotti concorrenti simili, esenzioni fiscali e di poter innalzare l’arma ducale sulla loro fabbrica. Con grida del 4 agosto 1741 venivano accolte le loro richieste e concessa la privativa della durata di dieci anni per la produzione di maiolica ad uso d’Imola o di Romagna, cioè della maiolica ordinaria detta anche mezza maiolica o maiolica cristallina.

 

Grida del 1741 che concede a Gio.Andrea Ferrari e soci l’esclusiva della produzione di maiolica bianca

 

Ma che cos’era la maiolica ordinaria? Era terracotta rivestita con un ingobbio bianco, nel caso decorata e finita con uno smalto trasparente a base di piombo per renderla lucida. La tecnica in questione era già conosciuta da tempo, non mancavano centri dove si produceva come a Modena, Reggio o Carpi. A fianco di questa tecnica era diffusa negli stati estensi la produzione di laterizi e di pignatteria, cioè la produzione comune e di necessità che avveniva in piccole fornaci presenti un po ovunque. Per la produzione di livello alto, che differiva per l’uso di smalto a base di stagno e veniva chiamata maiolica fine, si ci rivolgeva alla Romagna, Faenza in particolare, o alla Lombardia o al Veneto. All’epoca si produceva vasellame e stoviglieria, la produzione di mattonelle era una cosa rara e principalmente per scopi decorativi. I pavimenti di maiolica erano estremamente delicati e il calpestio li usurava, non mancavano esempi basti citare la cappella Vaselli in San Petronio a Bologna. Realizzato da Pietro Andrea da Faenza nel 1487 si tratta di un raro esempio di pavimento in maiolica conservatosi ma con evidenti segni dell’usura del tempo.

Tornando al Ferrari e i suoi soci, questi avevano ottenuto di essere gli unici produttori per tutti gli stati estensi della maiolica ordinaria. A sovrintendere la produzione si poneva il Ferrari, un altro socio Gio. Paolo Baggi si occupava di tenere la cassa e la contabilità, mentre il dottor Andrea Bandini si occupava del magazzino e di tenere aggiornato l’inventario delle scorte. La società si trovava ad affrontare diversi problemi, nel 1742 moriva il Ferrari, tre anni dopo vi erano dei problemi con gli eredi Vandelli proprietari della fornace, nel 1749 moriva anche il Baggi. Non ultimo dal 1742 il ducato era occupato dalle truppe austro-sarde nell’ambito della guerra di successione austriaca che vedeva il duca di Modena schierato con la fazione franco-spagnola. Nel 1748 a guerra terminata Francesco III d’Este rientrava in possesso dei suoi stati e si apriva un lungo periodo di pace ma la situazione per la fabbrica della maiolica non migliorava e nel 1749 i soci rimasti decisero di mettere in liquidazione la società incaricandone il dottor Bandini.

Interessato all’attività si faceva avanti Gio. Maria Dallari, probabilmente nella decisione aveva influito Domenico Maria Giacobazzi importante e influente uomo di governo già socio nella precedente gestione che aveva tutto l’interesse a non far chiudere la fabbrica. Subito il Dallari si impegnava per riattivare la produzione, rinnovare gli strumenti inserendo un nuovo macinello azionato dall’acqua del canale di Modena capace di triturare più materiali contemporaneamente. Non avendo conoscenze tecniche faceva venire ceramisti da fuori e soprattutto chiedeva al governo ducale il rinnovo delle privative e dei privilegi. Quest’ultima era una caratteristica del Dallari portata avanti per tutta la sua vita, chiedere l’intervento governativo, far valere e proteggere i suoi diritti. Un esempio nel 1752 quando i boccolari di Modena si lagnavano presso il duca per l’obbligo di dover acquistare solo dalla sua fabbrica e chiedevano di potersi approvvigionare a Reggio dove la produzione era ritenuta migliore, dal governo ottenevano risposta negativa. E il duca e la corte dimostravano la loro predilezione per la manifattura, tra il 1753 e il 1754 venivano fornite 283 pezzette di maiolica da camino per il Palazzo ducale di Sassuolo, molto probabilmente quelle che si possono ancor oggi vedere all’interno dei camini dell’appartamento stuccato.

Nel 1756 il governo ducale concedeva nuovi benefici, nello specifico la privativa per la produzione di maiolica fina ad uso di Lodi, non più quella ordinaria, valido fino alla terza generazione del Dallari. Veniva confermato il divieto decennale d’importazione, restava esclusa la fiera di Reggio in cui si poteva commerciare maiolica proveniente da fuori lo stato solo fino a quando il Dallari non fosse stato in grado di rifornire adeguatamente quella piazza. La produzione doveva essere posta a controlli periodici sulla qualità e quantità. Venivano concesse esenzioni dai dazi per i lavoranti forestieri e per le loro famiglie, per le materie prime necessarie alla produzione e per esportare le eccedenze, veniva concesso l’uso dell’acqua del canale di Modena infine si permetteva di poter innalzare l’arma ducale sulla porta d’ingresso della fabbrica.

Nello stesso anno il Dallari, che cercava sempre di apprendere nuove tecniche e segreti sulla ceramica, aveva ottenuto dal ceramista e pittore pavese Brizzi Africa il segreto per trovare e riconoscere l’argilla, aveva così potuto identificare una cava distante due miglia dalla fabbrica in località San Polo.

Nel 1760 veniva rinnovata la privativa che aveva scadenza decennale, la fabbrica prosperava e la produzione raggiungeva un buon livello qualitativo. Le maestranze forestiere venivano man mano sostituite da quelle locali che ormai avevano appreso l’arte, erano emersi pittori come il modenese Ignazio Cavazzuti e il sassolese Pietro Lei. I disegni e i modelli di produzione erano rielaborazioni di quelli di Faenza, della Romagna o di Lodi, non a caso i luoghi da cui erano venuti i primi ceramisti. Nel 1763 il marchese Ippolito Bagnoli, ministro del governo ducale, da Firenze scriveva al luogotenente di Sassuolo perché gli inviasse un servizio come quello che aveva già ricevuto e che aveva riscosso successo. Non mancavano le lamentele per la gestione del Dallari, nel 1764 una lagnanza inviata al governo riscontrava che la produzione era scarsa di quantità e qualità e venduta a prezzi maggiori di quella prodotta all’estero, in un’altra lagnanza un concorrente ricordava che le ceramiche sassolesi erano sulle tavole di tutti i ministri ducali a sottolineare la protezione di cui godeva il Dallari e di cui lo stesso si serviva senza troppi scrupoli. Al contrario la relazione del 1766 di Domenico Maria Giacobazzi su Sassuolo descriveva la fabbrica della maiolica, la sua produzione risultava bella e di qualità e si vendeva anche a Mantova, Firenze, in Veneto e persino in Germania.

La forza del Dallari e dei protettori si manifestava anche quando il marchese Achille Tacoli nel 1765 nelle scuderie della sua villa di San Possidonio si mise a produrre maiolica definita ad uso di porcellana o alla bolognese, cioè maiolica fine cotta a terzo fuoco. Subito il Dallari si rivolgeva al tribunale camerale per inibire l’attività e vedere rispettato il suo monopolio, il marchese si giustificava affermando che la sua produzione era di alta qualità e diretta all’esportazione fuori dai confini degli stati estensi. Per risolvere la vicenda il Tacoli veniva nominato governatore di Brescello e Gualtieri e allontanato dalla sua attività che doveva chiudere, anche se nella realtà continuava a produrre almeno fino al 1773.

Con la fabbrica ben avviata il Dallari associava nella direzione il figlio Giovanni, aveva studiato come notaio ma era anche un ceramista ed abile pittore. Aveva viaggiato e conosciuto altre produzioni, di lui ci resta un pregevole taccuino nella trascrizione ottocentesca dove riportava formule di impasti ceramici differenti, di vernici, smalti e altro a testimonianza della volontà di tenersi aggiornati e aumentare la qualità della produzione. Tanti erano i contatti con altre realtà e ceramisti, nel 1776 arrivava a Sassuolo Jean Pierre Varion che tentava di introdurre la produzione di porcellana con il Dallari ma l’affare non andava in porto, il Varion tentava anche a Modena chiedendo aiuto al governo senza risultato. Nel 1782 vi provava di nuovo il tedesco Giovanni Oxan ma sempre senza successo.

Un nuovo problema per la manifattura si presentava con un nuovo prodotto, la terraglia inglese che veniva importata a Sassuolo da Giuseppe Bertolazzi tra il 1775 e il 1777. Il Dallari però non aveva perso l’appoggio della corte anzi continuava a rifornirla come nel 1776 o nel 1778 quando spediva 500 pezzette da camino per la residenza del principe ereditario Ercole a Mugnano.

Nel 1785 il Dallari ormai vecchio e stanco cedeva la direzione al figlio Giovanni che si impegnava nella produzione raddoppiandola nella quantità e migliorandola nella qualità. Nel 1788 per poco tempo era presente a Sassuolo il ceramista viennese Leopoldo Finck, con il fratello aveva aperto una fabbrica a Bologna e in quel momento per dissapori se ne era allontanato. Molto probabilmente in questo breve periodo si sperimentava nella fabbrica Dallari la tecnica del piccolo fuoco o terzo fuoco.

Come il padre anche Giovanni non esitava a far valere i suoi privilegi e intentare causa ai concorrenti anche di produzioni ceramiche non coperte dalla privativa. La situazione a Modena stava cambiando, nel 1790 il nuovo duca Ercole III non rinnovava il divieto decennale d’importazione. Restava la privativa della produzione entro i confini estensi ma ora il Dallari doveva subire la concorrenza straniera. Chiarivano il mutato atteggiamento governativo due documenti dello stesso anno, uno del governatore di Reggio che lamentava la scarsità di prodotti sassolesi durante l’anno, presenti in quantità solo durante la fiera. L’altra era una richiesta di Carlo Antonio Muccini di Castelnuovo di Garfagnana di poter impiantare lì una fornace di maiolica visto che la zona non veniva rifornita dalla fabbrica sassolese. Il Dallari a tutte queste accuse rispondeva rendendosi disponibile a impiantare nuove manifatture a Reggio e in Garfagnana ma dal 1791 il divieto d’importazione cadeva.

Nel giro di pochi anni Giovanni Dallari vedeva andare in crisi l’attività e nel 1794 si risolveva ad affittarla per 10 anni. Con l’arrivo dei francesi nel 1797 cadevano anche gli ultimi privilegi ancora esistenti e la concorrenza non tardava a palesarsi. Nel 1798 nasceva la società mercantile composta da Luca Bontempelli ed altri soci per la produzione di maiolica. Faceva parte della compagine Pietro Lei che dal 1782 era Sassuolo dopo esser stato per anni a Pesaro nella manifattura Castelli e Callegari. Dal 1788 aveva aperto in via Lea una fabbrica di pignatteria e proprio la sua attività era la sede della nuova società che nemmeno un anno dopo il suo inizio veniva ceduta in affitto per nove anni. Nel 1805 Giovanni Dallari moriva lasciando la fabbrica ai figli Costanzo e Odoardo che tentavano di risollevarla senza successo. Nel 1807 riuscivano però ad avere la proprietà della fabbrica posta in via Lea senza risultati positivi.

Occorre chiarire dove si trovavano le due attività, quella aperta nel 1741 si trovava lungo l’odierna Via Cavallotti, per intenderci dove sorge palazzo Rubbiani e veniva rinominata fabbrica della maiolica o vecchia. L’altra posta in via Lea invece prendeva il nome di fabbrica nuova o della terra rossa perché vi si produceva pignatteria.

Ritornando ai fratelli Dallari per salvare le loro attività portavano avanti un pericoloso e opaco gioco fatto di continui passaggi di proprietà che molto probabilmente serviva a coprire il sostanziale fallimento, ingannare i creditori e ignari affittuari. Nel 1817 la situazione precipitava a causa dei debiti, veniva dichiarato il fallimento e le aziende chiuse con i sigilli. Odoardo riusciva a recuperare le due fabbriche e tentava di ottenere dal governo ducale qualche privilegio come già era avvenuto in passato. I tempi erano cambiati e nel 1818 da Modena si rispondeva istituendo il monopolio per la produzione solo per il territorio di Sassuolo entro un raggio di 10 miglia. Anche con questa novità la produzione non riprendeva slancio e Odoardo si decideva ad affittare e poi vendere la fabbrica nuova al maiolicaro Lorenzo Sighizzelli. Nell’estate del 1830 Odoardo prendeva la decisione di partire per il parmense, prima di andarsene donava la fabbrica vecchia a Costanzo che poteva riprendere il lavoro visto che era passato il periodo d’impedimento causato dal fallimento. Subito si metteva a brigare per riavere anche la fabbrica nuova e nel 1832 con la morte del Sighizzelli, facendo altri debiti, vi riusciva. Costanzo recuperate le attività pensava di poter rimettersi all’opera ma nel 1833 veniva nominato podestà di Sassuolo e il suo tempo ora andava tutto rivolto a questa nuova occupazione.

Sembrava ormai la fine per la produzione e nel 1835 coi Dallari alle prese coi creditori si faceva avanti, interessato alla fabbrica, il conte Gio. Francesco Ferrari Moreni. Le parti si conoscevano già perché il conte possedeva attiguo alla fabbrica vecchia un mulino e vi erano stati dei problemi nella gestione delle acque. A seguire le trattative per Costanzo, in quel momento proprietario, era delegato Odoardo che riusciva nel 1836 a vendere la fabbrica vecchia e in cambio di uno sconto sul prezzo pattuito otteneva dal conte una pensione per lui, per il fratello l’incarico ben retribuito da un vitalizio di consulente per la produzione.

Il conte non conosceva il settore e in aiuto a questa nuova avventura, oltre alla consulenza pagata a caro prezzo di Costanzo Dallari, su interessamento del duca otteneva centro carri di legna provenienti dai boschi demaniali del Cerreto. A partire dal 1838 dopo essersi allontanato dall’ambiente politico modenese iniziava a interessarsi della fabbrica investendo somme ingenti per risollevarla. Tanti erano i problemi: le materie prime erano una voce di spesa che incideva notevolmente nella gestione economica come quella per i lavoranti, il magazzino era pieno, la concorrenza delle terraglie venete non faceva vendere, infine circolava la notizia della prossima apertura nei pressi di Sassuolo di una fabbrica di maiolica. Il conte non si dava per vinto e ricorreva al duca per chiedere una privativa come già era stata concessa nel secolo passato, chiedeva il divieto d’importazione da fuori dei confini e all’interno il monopolio produttivo. Nel 1839 la supplica veniva reiterata specificando la criticità della situazione e paventando anche la chiusura. Da Modena si rispondeva riconfermando la privativa in forma ridotta già data ai fratelli Dallari.

Malgrado le difficoltà pian piano l’attività riprendeva, il conte dal canto suo era arrivato a ipotecare delle proprietà per far fronte alle spese. La fabbrica produceva maiolica e terraglia; quest’ultima era dedicata agli oggetti di maggior pregio, era fatta di un impasto di argilla bianco e ciottoli di quarzo, decorata poi invetriata. Il gusto degli oggetti si ispirava a un sobrio neoclassicismo, le decorazioni si limitavano a disegni floreali, a stemmi nobiliari o all’aquila estense. Costante l’uso del colore blu ricorrente l’arancio. Non a caso i colori e i decori richiamavano i simboli di casa d’Este, la produzione era infatti diretta e riscuoteva successo presso la corte arciducale e le classi elevate della società modenese.

 

Vassoio Ferrari Moreni (1840-1850)

 

Ritornando all’altra fabbrica presente a Sassuolo, quella nuova posta in via Lea era ancora in mano ai fratelli Dallari. Per obbligo contrattuale sottoscritto con il conte Ferrari Moreni non poteva produrre altro che pignatteria e dal 1836 era diretta da un abile ceramista, Giovanni Maria Rubbiani che riusciva a risollevarla e nel 1847 ne rilevava la proprietà. Il Rubbiani raggiungeva una solida posizione economica, nel 1853 riusciva a prendere in affitto dal conte la fabbrica vecchia e l’anno successivo l’acquistava. Dal 1851 il conte era ritornato alla vita politica chiamato come podestà di Modena, perdeva d’interesse per la fabbrica che cedeva in cambio una possessione di 45 biolche a Marzaglia. Il Rubbiani riusciva negli stessi anni a rilevare anche una piccola fabbrica posta sulla sponda reggiana del Secchia, alla Veggia di ragione Giovanardi che sfruttava l’importante cava del monte Armone già in uso almeno dalla fine del XVII secolo.

Giovanni Maria Rubbiani riorganizzava la produzione, nella fabbrica nuova vi metteva a capo il figlio Luigi per produrre ceramica d’uso comune. A sovrintendere la fabbrica vecchia entravano i figli Carlo e don Antonio, un prete, per la produzione di ceramica artistica; veniva abbandonata la dispendiosa produzione di terraglia e si riprendeva con nuovo slancio quella della maiolica, si ci orientava nella produzione ai modelli delle fabbriche venete, lombarde e anche tedesche. I risultati non mancavano e nell’estate 1856 don Antonio andava a Pavullo a incontrare il duca Francesco V per mostrargli un saggio della produzione, questo ne rimaneva talmente soddisfatto da ordinare di preferire la produzione sassolese per i bisogni della corte. Nello stesso anno la morte di Luigi segnava un cambiamento nella gestione delle aziende, don Antonio si faceva carico della fabbrica vecchia e della famiglia di Luigi mentre Carlo dirigeva ormai da solo la fabbrica nuova.

Si avvicinava inesorabile il 1859 e con esso la fine dello stato estense e l’inizio dell’unità d’Italia, i Rubbiani non si facevano trovare impreparati. Si apriva l’epoca delle grandi esposizioni nazionali e internazionali, vetrine importanti dal punto di vista commerciale ma anche per la circolazione delle tecnologie. L’elenco delle partecipazioni è lungo, nel 1861 erano a Firenze dove ottenevano un elogio ufficiale, nel 1867 partecipavano all’esposizione universale di Parigi dove ricevevano una medaglia di bronzo. Nel 1868 era la volta di un’esposizione a Torino, l’anno successivo a Padova, nel 1870 a Teramo e nel 1873 a Vienna.

Nel frattempo i due fratelli decidevano di dividersi sotto il profilo legale le due attività, nel 1869 Carlo teneva la fabbrica vecchia. Antonio, sospeso a divinis l’anno precedente, gestiva per i figli di Luigi la fabbrica nuova e quella della Veggia. I due fratelli continuavano a collaborare e partecipare insieme alle grandi manifestazioni ma sarebbe stato sempre di più Carlo a dare l’indirizzo alla produzione e a decidere le politiche aziendali.

Un’inchiesta del 1878 della camera di commercio di Modena ricordava che la fabbrica di Carlo contava 33 operai, quella di Antonio 20 e citava una terza attività di ragione Pincelli con sede a Pontenuovo con 10 dipendenti. Nello stesso anno partecipavano a un’esposizione di Parigi dove Carlo decideva di esporre solo la produzione di consumo e comune contro il parere del fratello che voleva invece esporre quella artistica. Nel 1881 alla mostra di Milano si mandavano solo ceramiche artistiche e ottenevano una medaglia d’argento per la produzione che veniva apprezzata anche dal sovrano, Umberto I di Savoia, che acquistava un grande piatto decorato con scene di caccia e un vaso di stile barocco.

Come già scritto era Carlo a dare l’indirizzo alla produzione e la partecipazione alla esposizioni gli permetteva di entrare in contatto con le più moderne tecnologie e tendenze del settore, aveva probabilmente inteso che ormai la maiolica artistica era destinata a venire fagocitata dalla porcellana sempre più alla portata di tutte le classi. Bisognava trovare altri sbocchi e un primo e fortunato indirizzo fu quello della produzione di targhe per numeri civici e per l’indicazione delle vie. Carlo iniziava a produrre targhe dal supporto di maiolica smaltate di bianco e dipinte a mascherina con vernice blu. Anche la Ginori le produceva ma di porcellana e risultavano fragili e poco chiare nei caratteri, quelle Rubbiani erano resistenti e di chiara leggibilità. Sappiamo che all’esposizione della società d’incoraggiamento degli artisti di Modena del triennio 1879-1881 erano presenti, ma erano già state esibite all’esposizione del triennio precedente.

Bisogna ricordare che la produzione di ceramica artistica non veniva abbandonata anzi continuava e nel 1885 giungeva a Sassuolo l’artista Carlo Casaltoli che con il suo stile rinnovava e aggiornava la produzione artistica. Una relazione della camera di commercio di Modena del 1888 descriveva molto bene la strada che stava prendendo la produzione, indicava il prodotto principale nelle targhe stradali e le tavolette per rivestire pareti e acquai. Evidentemente era iniziata la produzione delle piastrelle di maiolica smaltata. Proprio nello stesso anno all’esposizione di Bologna la fabbrica vinceva una medaglia d’oro per la produzione artistica guidata con successo dal Casaltoli, ma già stava diventando secondaria e all’esposizione di Roma del 1889 veniva presentato un saggio di piastrelle di maiolica smaltate pressate a secco. Carlo aveva preso una strada nuova e inedita per l’epoca virando la produzione verso le piastrelle da rivestimento e cercava di restare aggiornato tecnologicamente, tanto che nel 1890 a un’esposizione modenese presentava piastrelle in maiolica decorate meccanicamente. Nel 1891 la morte lo coglieva e lasciava ai figli e al fratello Antonio il compito di continuare la strada aperta, lo sforzo economico era stato gravoso tanto che nel 1893 i figli per trovare denaro decidevano di mettere all’asta le collezioni artistiche famigliari senza successo. La produzione malgrado i problemi economici continuava e un opuscolo della provincia di Modena del 1895 parlava del successo della pianelle, cioè piastrelle, del grande smercio che se ne faceva a Roma e Napoli. La fabbrica veniva descritta: occupava 40 operai, aveva sei forni a fuoco intermittente e un motore idraulico della forza di 14 cavalli usato per la tritatura degli impasti e dei colori. La fabbrica nuova invece aveva 24 operai e una turbina dalla forza di 4 cavalli.

Una serie di lutti assestava un colpo quasi mortale alle attività, prima Orazio, figlio di Luigi. Nel 1904 moriva Ugo, figlio di Carlo lasciando nello scompiglio la fabbrica vecchia, poi nel 1905 moriva il vecchio Antonio che dal 1897 si era riconciliato con la Chiesa.

La fabbrica vecchia ormai era una vera e propria fabbrica di piastrelle ed era gestita da Giovanni, altro figlio di Carlo e la produzione continuava con successo ma la situazione economica non migliorava tanto che nel 1910 i creditori agivano in giudizio e ottenevano la liquidazione di quello che restava dall’eredità Rubbiani. La fabbrica nuova nel 1911 veniva rilevata da un gruppo di soci, tra cui Giovanni stesso, che davano avvio alla Dieci Bertoli & C. per la produzione di piastrelle e targhe. La fabbrica vecchia invece veniva rilanciata da un ragioniere milanese di origine ligure, Matteo Olivari, che manteneva il nome dell’azienda, cioè fabbrica Carlo Rubbiani e continuava, apportando capitali, con successo la produzione.

Una descrizione del 1914 redatta dalla provincia di Modena ricordava che la produzione artistica, di antica tradizione, era stata ormai abbandonata in favore della produzione di piastrelle smaltate da rivestimento visto il successo soprattutto perché rispondevano perfettamente alle moderne esigenze igieniche richieste nei luoghi pubblici e privati. L’azienda a inizio anno occupava 180 operai ma a causa della guerra e della difficoltà di reperire le materie prime erano calati a 150, la produzione si aggirava intorno ai 5000 pezzi giornalieri. Fu proprio l’ingresso dell’Italia in guerra nel 1915 a mettere in pausa lo sviluppo intrapreso.

La situazione antecedente alla guerra a Sassuolo si mostrava vivace, oltre alla fabbrica Rubbiani esistevano altre piccole attività che imitavano la produzione di piastrelle: la già citata Dieci e Bertoli & C. in via Lea, in vicolo Avanzini la Ninzoli Marconi Lusenti e la Rizzi in via Circondario (via Pretorio). Infine un interessante opuscolo del 1911 presentava il progetto di una moderna fabbrica di piastrelle d’argilla smaltata pressate a secco da erigere in località Veggia, ai piedi del monte Armone, la già citata cava in uso fin dal ‘600. Si spiegava che l’idea nasceva dal grande successo della produzione Rubbiani, descritta come unica e prima in Italia a usare argilla pressata a secco. L’erigenda fabbrica sarebbe stata dotata di una centrale idroelettrica sfruttando l’acqua opportunamente deviata dal canale di Reggio e con la creazione di un prolungamento ferroviario si sarebbe potuta collegare alla linea Sassuolo-Reggio Emilia.

Prima di seguire con la narrazione penso sia importante chiarire alcune cose perché nelle righe scritte sopra vi è la chiave di volta e origine della storia ceramica moderna sassolese. Storicamente mattonelle di diversi materiali ceramici sono state prodotte fin dai tempi più antichi. In Italia la produzione di mattonelle smaltate era diffusa soprattutto nel sud del paese dove ancor oggi si possono ammirare in edifici religiosi e privati, ricordo il famosissimo chiostro maiolicato di Santa Chiara a Napoli del 1738. Ancora tra fine ‘800 e inizi ‘900 nel sud tantissime erano le fabbriche che producevano mattonelle ma la differenza tra queste e la fabbrica sassolese era nel processo produttivo. Nella seconda metà dell’800 il progresso industriale aveva apportato nuove tecnologie produttive al settore della ceramica, dal nord Europa erano giunti nuovi forni per la cottura e le prime presse che permettevano di ottenere un supporto da argille secche mentre nel meridione di usava ancora preparare impasti poi foggiati allo stato plastico. I Rubbiani con la partecipazione alle esposizioni in tutta Europa avevano potuto conoscere le produzioni inglesi, tedesche e francesi nel campo delle piastrelle, proprio da questi ambienti avevano poi importato le tecnologie e modelli produttivi.

Negli stessi anni non mancavano in Italia altre aziende che seguivano la stessa strada dei Rubbiani, basti citare le fornaci Gregorj e Appiani di Treviso, dove leggendo la loro storia si possono riscontrare elementi comuni alla vicenda sassolese: presenza di materie prime, tradizione ceramica, figure imprenditoriali innovative, uso di tecnologie avanzate. Oppure le fornaci San Lorenzo dei Chini dove si produceva ceramica artistica e pannelli decorativi di piastrelle. Anche a Faenza andava in crisi la produzione ceramica artistica, a inizio ‘900 si riunivano in un’unica società le tre più importanti manifatture: la Ferniani, la Farina e la Treré. Lo scopo era rilanciare la ceramica artistica ma veniva introdotta anche la produzione di piastrelle pressate a secco. Nel corso del tempo diversi problemi economici e cambi di gestione non riuscivano a far decollare l’attività. Molto significativo era il caso di Imola. Nel 1874 Giuseppe Bucci, proprietario di una fabbrica di maioliche, aveva ceduto l’attività ai propri operai che avevano dato origine alla Cooperativa ceramica d’Imola. Anche per loro con il passaggio al nuovo secolo si apriva un periodo di crisi dettato dalla caduta d’interesse per la ceramica artistica. A partire dal 1911 si cercavano nuovi sbocchi all’attività e si ci interessava a quanto era stato fatto nella fabbrica Rubbiani di Sassuolo, tanto che nel 1913 si riusciva a far venire a Imola due ex operai dei Rubbiani per impiantare la produzione di piastrelle. Sottolineo che se fino ad allora erano stati i ceramisti romagnoli a venire a Sassuolo con il loro bagaglio di competenze per la prima volta le parti si invertivano, o meglio si dava avvio a un rapporto alla pari tra Sassuolo e la Romagna di scambi e collaborazioni reciproche che nel tempo sarebbe stato destinato a crescere sempre di più.

Ricapitolando, la tradizione di produrre mattonelle era antica e diffusa ma a Sassuolo si era iniziato a produrre piastrelle in maiolica in maniera industriale e meccanica; anche in altre parti d’Italia si tentavano e avviavano esperienze simili ma che non avranno lo stesso sviluppo ne vedranno la nascita di un distretto industriale.

Ma come avveniva la produzione? Tutto iniziava dall’argilla che veniva estratto dalle cave presenti sul territorio, San Polo o Rometta a Sassuolo, Veggia a Casalgrande. L’argilla veniva macinata a secco e poi pressata con presse a vite. Le piastrelle formate venivano messe ad essiccare in locali posti sopra i forni, poi cotte in fornaci a pianta circolare, le fornaci Hoffmann. Una volta uscite venivano smaltate a mano versando lo smalto da una caffettiera e sbavate, cioè puliti i bordi, con stecche d’acciaio. L’ultima cottura avveniva in forni a muffola. Se venivano decorate si usavano mascherine applicate sulle piastrelle e poi passate a pennello, il colore ricorrente era il blu cobalto. All’epoca si producevano piastrelle da rivestimento, le dimensioni variavano dai 5×5 centimetri al classico 20×20 centimetri. Come spiegato sopra non si realizzavano ancora pavimenti per il problema dell’usura.

Ritornando alla nostra storia, passata la guerra poteva riprende la produzione di piastrelle, l’azienda sotto la guida di Matteo Olivari tornava a crescere e nel 1920 mutava il nome in Società anonima ceramica di Sassuolo e a partire dal 1922 e poi nel 1924 e 1926 veniva aumentato il capitale per rispondere alle esigenze di ammodernamento produttivo. Nel 1932 moriva prematuramente l’Olivari creando grave sconforto nell’azienda che veniva presa in gestione da un altro socio, il principe Odescalchi. Infine nel 1936 veniva creata la società Marca Corona a cui venivano conferite le attività della vecchia società ceramica di Sassuolo.

Fino alla prima guerra mondiale la produzione sassolese praticamente si identificava con l’azienda già dei Rubbiani, le altre erano di piccole dimensioni e operanti per brevi periodi. A partire dal primo dopoguerra invece iniziava a delinearsi un primo embrione di distretto con la nascita di nuove e moderne aziende.

La ditta Dieci Bertoli & C. nel 1926 veniva rilevata dall’ingegnere modenese Guido Siliprandi che la rinominava con il suo cognome e la faceva ripartire negli angusti spazi di via Lea. Nel 1932 chiudeva lo stabilimento ormai troppo piccolo e nel 1934 si dava avvio alla nuova sede di via radici in piano, posta in modo strategico tra le due stazioni dei treni. Dal 1936 iniziava la produzione, la vecchia sede veniva convertita a magazzino. Infine nel 1938 con l’ingresso della famiglia Gambigliani Zoccoli nella proprietà mutava il nome in S.a.i.m.e. (Società anonima italiana materiali edili).

Alla Veggia veniva recuperato il vecchio progetto del 1911 per la costruzione di una fabbrica di piastrelle e nel 1926 era realizzato da Guido Giglioli, possidente terriero di Fiorano e dalla famiglia Carani proprietaria di tre fornaci: una a Fiorano stessa, una a Mezzavia di Sassuolo e la terza poco lontana dalla nuova attività a Tressano di Castellarano. La nuova azienda si sarebbe distinta subito per intraprendenza e qualità dei prodotti diventando la principale concorrente della fabbrica sassolese. Nel 1931 la società mutava il nome in Industria ceramica Veggia e in quel periodo vi entrava il faentino ing. Antonino Dal Borgo, una figura straordinaria di quegli anni che avrebbe apportato diverse innovazioni come l’uso di smalti a base d’arsenico molto più economici quelli allora usati. Con l’aiuto del suo insegnante Maurizio Korack brevettava un prodotto innovativo, il kervit. Una piastrella dallo spessore di pochi millimetri realizzata con un procedimento rivoluzionario per l’epoca. Per la produzione veniva introdotta la macinazione ad umido rispetto alla prassi di macinare a secco. Al posto della pressatura avveniva una colatura di materiale su nastri trasportatori in modo che tutti e tre gli strati di cui era fatta la piastrella di kervit avvenissero in sequenza. Poi le piastrelle venivano rifilate e passavano in un unico passaggio nel forno per la cottura della durata di circa due ore e mezzo. Il problema del kervit era la posa, non adatto all’uso con calce e cemento, la tensione causata della dilatazione termica ne determinava il distacco dal muro. Il prodotto malgrado le proprietà tecniche e qualitative non ebbe il successo sperato.

Nel 1935 Eugenio Carani, uscito dalla ceramica Veggia apriva a Sassuolo lungo via Umberto I, oggi via Mazzini la S.a.c.e.s. (Società anonima Eugenio Carani Sassuolo). Ultima azienda a nascere nel periodo era sempre nel 1935 la Marazzi. Filippo Marazzi commerciante con una buona posizione economica decideva di intraprendere la produzione di piastrelle. Merita di essere ricordata la storia del primo stabilimento innalzato, la tradizione vuole che venissero tagliati alla stessa altezza due filari di pioppi paralleli e su questi costruito un tetto e alzati muri con legname e altri materiali di recupero. Con queste misere strutture iniziava l’attività quella che sarà destinata a diventare la più grande azienda ceramica italiana.

 

Le maestranze della ceramica Marazzi nel 1935

 

Ricapitolando alle soglie dello scoppio della seconda guerra mondiale il distretto si presentava con cinque attività industriali avviate, quattro a Sassuolo e una alla Veggia di Casalgrande. Non mancavano già primordiali attività collegate e di supporto alle aziende, possiamo ricordare le officine Micagni e Ceppelli, quest’ultima produceva le famose presse ad imitazione di quelle tedesche. Non mancavano dentro le aziende figure importanti capaci di apportare miglioramenti significativi alla produzione, abbiamo ricordato Antonino Dal Borgo. Alla S.a.i.m.e. dal 1932 era presente l’ing. Leone Padoa, figura di primo piano nello sviluppo dei forni a tunnel. Oppure erano gli stessi operai che con intuizioni semplici ma geniali riuscivano a risolvere e semplificare i processi produttivi. Alla S.a.c.e.s. lavoravano i fratelli Spallanzani, il meccanico Francesco metteva a punto una macchina raschiatrice per i bordi delle piastrelle usando dei pneumatici lisci, facendoli girare ad alta velocità toglievano lo smalto dai bordi. Il fratello Savino si occupava della preparazione dei colori, le così dette fritte, e della cottura delle piastrelle risolvendo di volta in volta i problemi che si presentavano durante la cottura.

Un’indagine del 1935 del C.N.R. descriveva Sassuolo come un paese prevalentemente operaio con molta manodopera femminile impegnata nell’industria e una consistente immigrazione dal vicino appennino. Un censimento del 1936 della provincia rilevava il livello di addetti nell’industria più alto di tutta la provincia e una pubblicazione comunale dello stesso anno spiegava che l’industria si era sviluppava enormemente dalla fine della prima guerra mondiale e molto buone erano le prospettive di sviluppo. Ormai si andava verso lo scoppio della seconda guerra mondiale ma ancora nel 1940 il podestà di Sassuolo chiedeva al Prefetto di riconoscere a Sassuolo l’applicazione della legge 6 luglio 1939 e dichiarare il comune d’importanza industriale e ottenere i relativi benefici. La normativa richiedeva 25000 abitanti che non si raggiungevano ancora ma si chiedeva di procedere in deroga a causa della continua emigrazione dalla montagna.

Con l’entrata in guerra iniziava un periodo di crisi, molti dei 1600 operai impegnati fino al 1940 venivano licenziati, la produzione entrava in crisi per la mancanza di materie prime ma non si fermava del tutto. A fine guerra la situazione era complicata, a parte lo stabilimento della Marazzi gli altri avevano subito consistenti danni, in particolare avevano subito pesanti bombardamenti aerei la S.a.i.m.e. per la sua vicinanza alle ferrovie e la S.a.c.e.s. perché ospitava nei suoi capannoni motori aerei della Caprari di Reggio Emilia. Ma già si pensava a ricostruire per poter ripartire con la produzione, le aziende facevano ricorso a prestiti e finanziamenti o procedevano con aumenti di capitali. Con i fondi ottenuti la Marazzi allargava gli stabilimenti e incrementava la produzione, la Marca Corona installava un nuovo forno a tunnel per la cottura del biscotto smaltato su progetto di un ingegnere danese. Erano anni in cui partiva la ricostruzione e le aziende si rinnovavano per poter rispondere alla crescita della domanda, ma molti altri cominciavano a guardare con interesse al settore. I primi furono Romeo Giacobazzi, possidente terriero e Vincenzo Gibertini, meccanico proprietario dell’officina Ceppelli che si misero in società per fondare la ceramica Ragno nel 1948. Fino al 1956 potevamo contare 14 industrie, oltre alle prebelliche Marca Corona, S.a.i.m.e., Veggia, S.a.c.e.s. e Marazzi, avevano aperto la Ragno, Cisa, Edilcarani, poi la Campanella per volontà di Gibertini che l’anno prima era uscito dalla società con Giacobazzi, tutte queste nel territorio di Sassuolo. Fuori Sassuolo trovavamo a Formigine la vecchia fornace Leonardi che produceva anche piastrelle, stessa cosa valeva per la fornace Cavallini di Castelvetro di Modena. Poi a Scandiano avevano aperto la Scandianese, la San Marco e la River. In quello stesso anno apriva a Sassuolo la ceramica Guglia che per prima iniziava a produrre il gres rosso. Occorre ricordare che la produzione era ancora rivolta alle piastrelle da rivestimento, al contrario il gres rosso era un prodotto che per le sue caratteristiche si presentava adatto ad essere usato per la pavimentazione di luoghi ad alto passaggio ed usura, infatti diventava in quegli anni il prodotto più diffuso per pavimentare grandi aziende, luoghi pubblici come ospedali o scuole, ma anche esterni come marciapiedi e balconi per la sua resistenza al gelo.

Un problema rimasto ancora senza risposta era quello della formazione, rispetto a centri come Faenza non esistevano scuole o corsi di preparazione al mondo della ceramica. Per iniziative private erano sorte nel 1906 una scuola d’arte ceramica intitolata a Giacomo Cavedoni e una scuola tecnica nel 1952, l’A.c.a.l. (Attività cattolica d’avviamento al lavoro) per opera di don Dorino Conte. Solo negli anni ’60 con la riforma della scuola pubblica si andava a colmare la lacuna.

Un fattore d’incentivo allo sviluppo del distretto venne dalla legge 635 del 1957 che dichiarava terre depresse molti comuni del reggiano e del modenese, concedendo l’esenzione dai tributi da pagare sui redditi per dieci anni, iniziavano così a sorgere industrie ceramiche con estrema facilità. Basti ricordare che negli anni ’60 le aziende di gres rosso, un materiale facile da produrre e con buone caratteristiche, erano diventate 114, posizionate soprattutto nel territorio reggiano. Dalla fine degli anni ’50 e inizi dei ’60 con il boom economico e la relativa spinta edilizia il settore subiva un’accelerazione, tanto che nel 1964 solo in territorio modenese si contavano 75 aziende con 7000 addetti, nell’intero distretto si produceva i 2/3 di tutta la produzione nazionale e il 40% di quella europea. Proprio per la vastità dello sviluppo nasceva l’associazione di categoria dei produttori di piastrelle di ceramica, l’Assopiastrelle (oggi Confindustria Ceramica).

Ma come nascevano tutte queste ceramiche? I modi erano semplici, gruppi di amici o di conoscenti che si ritrovavano al bar o a un qualche evento e si mettevano insieme decidendo di mettere una quota di denaro a testa e spesso anche le proprie competenze personali. C’era chi portava il bagaglio d’esperienza accumulato nel lavoro svolto in altre ceramiche, altri invece erano completamente digiuni del settore ma avevano capacità gestionali o erano abili venditori.

Tornando alle tipologie produttive, eravamo rimasti fermi alla produzione di rivestimenti in maiolica e pavimenti in gres rosso. Alla fine degli anni ’50 Marazzi tentava di produrre pavimenti in maiolica con un doppio rivestimento vetroso per rendere più resistente la piastrella all’usura. Una svolta importante in questo campo venne dall’introduzione di un nuovo tipo di biscotto, intermedio tra la maiolica e il gres rosso. Nasceva il cottoforte, un prodotto tipicamente sassolese che permetteva di realizzare pavimenti più resistenti. Ad iniziare la produzione era stata la ceramica Iris, nata nel 1961, che lo aveva rinominato “semigres”. Questo nuovo prodotto segnava un cambio anche nei processi produttivi. Prima le aziende seguivano tutto il ciclo di lavorazione ora producevano e vendevano anche solo il biscotto, cioè il supporto grezzo, ad altre aziende. Queste ultime, dette di smalteria, si occupavano solo della smaltatura e decorazione. Altra innovazione importante era quella nella realizzazione dei decori, ancora negli anni ’50 ancora si assisteva a reparti dove operai, molte volte erano veri e propri artisti, decoravano a mano o con mascherine una piastrella per volta. L’introduzione della decorazione per serigrafia superava questa limitazione, si potevano ottenere piastrelle decorate in serie che potevano rispondere alla domanda in costante crescita.

Se le aziende crescevano e si sviluppavano, tutto intorno a loro si creava un circuito di servizi ad esse collegate, da quelle che producevano i colori ad altre responsabili della produzione dei macchinari e dei forni, senza dimenticare quelle di fornitura delle materie prime. Ormai il distretto era formato, anche in altre parti d’Italia si producevano piastrelle ma Sassuolo e i comuni vicini avevano creato una rete di aziende produttrici e di altre a compendio e servizio che permettevano di parlare di vero e proprio distretto produttivo.

Nel 1976 si raggiungeva il record di persone occupate nel settore ceramico, 48115, e di aziende, 509. Ma gli anni ’70 segnavano anche la maturità del settore, si affacciavano i problemi del consumo energetico e dell’inquinamento del territorio. Molte aziende chiudevano o venivano accorpate. Grazie agli sforzi di Pietro Marazzi nel 1974 veniva presentato un rivoluzionario sistema produttivo che riusciva ad abbattere i costi di produzione, aumentare i volumi e fornire un prodotto dalle caratteristiche di resistenza all’usura e al gelo, la monocottura. Prima il processo produttivo prevedeva due passaggi di cottura, la produzione seppur meccanizzata era ancora organizzata come a inizio secolo. Ora il processo di monocottura introduceva un tipo di forno che permetteva di cuocere contemporaneamente il biscotto e lo smalto in solo un’ora a una temperatura più alta che lo rendeva maggiormente resistente, basti pensare che tutto il ciclo produttivo veniva a condensarsi in sole quattro ore. Una rivoluzione che permetteva al comprensorio ceramico di restare leader indiscusso del settore, ancora nel 1980 qui si produceva il 70% della produzione nazionale, il 55% di quella europea e il 40% di quella mondiale. Superata la crisi energetica le aziende ceramiche si avviavano verso i mercati esteri, Francia e Germania già erano state battute negli anni precedenti ora si guardava agli Stati Uniti e a nuovi mercati oltre oceano. In quegli anni diventava sempre più preminente lo sviluppo tecnologico, con i nuovi forni si entrava in una fase in cui pian piano tutte le fasi produttive venivano meccanizzate, questo grazie anche alla presenza di aziende sul territorio specializzate nella costruzione di impianti. Infine il problema, fino ad allora scarsamente considerato, dell’inquinamento. Le aziende iniziavano a dotarsi di depuratori dell’acqua, di impianti d’abbattimento di fumi e polveri, infine di riciclare gli scarti e i residui di produzione.

Grazie alle nuove tecnologie assumeva sempre più importanza la ricerca stilistica. Nel distretto, salvo rari casi, non era abitudine rivolgersi a importanti e famosi designer ma seguendo l’esempio delle aziende ceramiche lombarde (Ce.d.it, Bardelli, Gabbianelli) si cominciava a puntare su questo fattore. Sassuolo dava il via alle collaborazioni con il mondo della moda, già Marazzi aveva provato con scarso successo a fine anni ’60 a lanciare una serie di piastrelle disegnate da grandi sarti, Biki, Rabanne e Forquet. A fine anni ’70 la ceramica Piemme riprendeva questa idea e la faceva sua lanciando una linea di piastrelle disegnate con Valentino, avrebbero avuto un successo straordinario tanto da portare le altre aziende a voler collaborare anche loro con stilisti e case di moda. Fu un altro enorme successo a livello mondiale delle piastrelle sassolesi. La necessità di decorare le piastrelle nei modi più fantasiosi creava un nuovo problema alle aziende che veniva risolto con la nascita di un nuovo tipo di servizio a supporto, le così dette aziende di terzo fuoco o di decoro, attività specializzate solo nella decorazione delle piastrelle.

Il settore non si fermava e negli anni ’80 emergeva un nuovo prodotto, il gres porcellanato. Fino ad allora era stato prodotto da poche aziende del distretto per difficoltà e problemi nel procedimento, possiamo ricordare la C.i.b.e.c., la Floor gres e la Casalgrande Padana che già dagli anni ’60 produceva con successo un formato 10×5 in gres porcellanato. Con l’avanzamento tecnologico ora si potevano produrre formati più grandi e anche differenti, in particolare ora si potevano ottenere pressando impasti dai colori diversi, piastrelle che imitavano perfettamente materie come i marmi o le pietre. Le caratteristiche del gres porcellanato, resistenza all’usura e agli urti, antigelività, lo rendevano un prodotto vincente per i luoghi ad alto traffico. Tra gli anni ’80 e ’90 il gres porcellanato da pavimenti diventava la produzione principale. In questi anni il settore ospitava il 55% delle aziende esistenti in Italia e l’80% della produzione nazionale. Ma i tempi cambiavano e la concorrenza straniera si faceva sempre più agguerrita, prima la Spagna poi nuovi paesi: Brasile, Cina, Egitto, India, Turchia. Lo sviluppo delle aziende di impianti produttivi permetteva di avere gli stessi macchinari in qualsiasi parte del mondo, i concorrenti ora potevano avere lo stesso livello tecnologico e capacità produttiva ma con vantaggi per minori costi come sulla manodopera o sull’energia. Sassuolo e il distretto si avviavano su una nuova strada in cui il punto di forza non era più la quantità ma la qualità e la ricerca.

In ordine cronologico l’ultima rivoluzione del settore è stata l’introduzione delle lamine ceramiche, lastre di grandi dimensioni dallo spessore ridotto a pochi millimetri. Grazie all’idea dell’ing. Franco Stefani dal 2001 questa tecnologia si è fatta man mano strada diventando oggi la principale. Queste lastre riproducono perfettamente superfici di marmo o di pietra e possono essere usate per rivestire pavimenti e pareti ma anche come elementi d’arredo e d’architettura.

 

Articolo pubblicato sulla rivista “Il Ducato” n.46, 2018

 

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