La ceramica ha da sempre accompagnato la storia dell’uomo, come forma di espressione artistica e per realizzare oggetti d’uso quotidiano. La ceramica è un materiale ‘caldo’, per certi versi ancestrale, costituito dall’unione dei quattro elementi – terra, acqua, aria, fuoco – attraverso le mani e il saper fare di artigiani e artisti.
Terra. Non solo come argilla plasmata, ma anche come territorio, anzi come territori italiani, che nel corso dei secoli – in particolare a partire dall’epoca tardo-medievale – hanno saputo dare vita a incredibili tradizioni artistiche nel campo della ceramica, valorizzando il proprio genius loci. Il viaggio nelle città italiane della ceramica ci mostra così come quest’arte sia legata alla storia, all’economia e alla cultura dei territori in cui si è sviluppata, riflettendone – nei tanti musei, botteghe artigiane e opere a cielo aperto – i tratti distintivi e caratteristici.

Le origini della maiolica italiana

In età medievale l’isola di Maiorca fu un importante scalo commerciale nel Mediterraneo. Nei porti italiani venivano sbarcate ceramiche di gran pregio, provenienti da quell’isola delle Baleari, sfornate nelle terre di Spagna anco-
ra parzialmente dominate dagli islamici. Grandi catini, piatti, vasi sorprendevano per la loro bellezza formale e per l’incredibile qualità materica. Sembravano essere fatti di luce, da come la riflettevano: la superficie bianca pareva decorata in oro. Gli islamici avevano infatti messo a punto un nuovo materiale ceramico di gran pregio: la semplice terracotta rosso-bruna, con cui era modellato il corpo dell’oggetto, era rivestita con uno strato vetroso, detto invetriatura – che lo rendeva impermeabile – colorato di bianco grazie all’aggiunta dell’ossido di stagno. La decorazione sfruttava poi quel particolare effetto di metallizzazione chiamato lustro, prodotto grazie
a un complesso procedimento tecnico.
Queste ceramiche vennero così chiamate «maioriche» o «maioliche» e gli aristocratici italiani facevano a gara per possederne esemplari, arrivando a
ordinarne talvolta serie stemmate.

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Tra Mediterraneo e Oriente

I ceramisti italiani, che fino ad allora avevano prodotto terrecotte impermeabilizzate grazie al rivestimento vetroso, arricchirono il proprio repertorio guardando alla maiolica d’importazione. Nel corso del Trecento vediamo infatti apparire le cosiddette maioliche arcaiche: imitando la tecnica ispano-moresca, viene aggiunto all’invetriatura ossido di stagno, il colorante bianco capace di opacizzarla, in quantità crescente.
Il lavoro si perfeziona: le argille vengono filtrate, depurate, miscelate. Le forme vengono modellate al tornio o a stampo. Dopo l’essiccazione, gli oggetti vengono sottoposti a una prima cottura il cui prodotto, in terracotta, è il cosiddetto ‘biscotto’. Dopo essere rivestito dello smalto stannifero e dipinto con i colori ‘a gran fuoco’, l’oggetto viene rimesso in fornace e cotto a 800-900 gradi. Ne esce la maiolica.
La tavolozza a disposizione è ristretta perché solo pochi colori resistono a una temperatura di cottura così alta: al bruno di manganese e verde ramina, già sfruttati sulle maioliche arcaiche, si aggiungono il giallo ferraccia e il blu di cobalto (oltre al rosso ferroso, vero cruccio dei ceramisti perché facilmente difettoso).

Conosciamo abbastanza bene il lavoro del maiolicaro rinascimentale grazie ai Tre Libri dell’Arte del Vasaio compilati da Cipriano Piccolpasso, vasaio di Casteldurante (oggi Urbania), attorno alla metà del Cinquecento. Un manuale pratico, illustrato con chiari disegni, in cui vengono descritti materiali e strumenti e rivelati i trucchi del mestiere... fino a come condurre la cottura in fornace. È questo infatti uno dei momenti più rischiosi della produzione: un errore può distruggere diverse settimane di lavoro dell’intera bottega. La temperatura deve salire, raggiungere quella di cottura senza superarla e poi ridiscendere molto gradualmente, e il mastro fornaciaio deve controllare la ‘cotta’, osservando l’andamento attraverso il colore delle fiamme e del fumo e calcolandone i tempi.
Sul crinale del Quattrocento diversi centri ceramici fra Toscana, Emilia-Romagna e Lazio sfornano maioliche decorate con grosse pennellate di blu pastoso che resta in leggero rilievo sulla superficie smaltata, dette ‘a zaffera a rilievo’. Il termine zaffera, di origine araba, era usato per definire il blu, il silicato di cobalto importato dalla Persia, protagonista di questo ornato.